Filippo Ticozzi

 

Filippo Ticozzi wrote and directed the documentary “Lettere dal Guatemala” (2006), the short feature film “Lilli” (2008) and the short “Dall’altra parte della strada” (2010), which have been selected for various festivals and have received prizes in Italy and in France. In addition he has written and directed a series of documentaries, “Il Paese Sottile” (2008), for Sky Television and created the video installation Testa di Vecchio+Testa d’Orientale (2009) for the Italian contemporary art event Gemine Muse.  His latest work is the documentary “Mino Milani scrittore d’avventura” (2010), about one of the most important children’s writers in Italy.

Filippo Ticozzi ha scritto e diretto il documentario Lettere dal Guatemala (2006), il mediometraggio Lilli (2008) e il cortometraggio Dall’altra parte della strada (2010), che hanno ottenuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali. Per l’evento d’arte contemporanea Gemine Muse ha realizzato la videoinstallazione Testa di Vecchio+Testa d’Orientale (2009) e per la tv ha scritto e diretto la serie documentaria Il Paese Sottile (2008). Il suo ultimo lavoro è Mino Milani Scrittore d’Avventura (2010), ritratto del celebre scrittore per ragazzi.

“Lilli” – IMDB: http://www.imdb.com/title/tt1362250/
 
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Filippo Ticozzi:  Thoughts on Guatemala
 

“Se dovessi rendere comprensibili i miei scompigliati pensieri sul filmare e cercare di spiegarli ad un interlocutore direi: filmare, per me, da un lato significa cercare di creare un luogo ove una realtà disordinata e ricchissima possa rendersi visibile al mondo; dall’altro è lo scontro con il caso e la necessità di mescolarsi con ciò che sta davanti a sé, superando le barriere più superficiali, tendendo il più possibile la linea che separa il davanti dal dietro la macchina da presa, cercando nuove possibilità e nuovi confini, al fine di trovare un angolo inconsueto dal quale sentire/vedere il mondo.

Fiction o documentario poco cambia. Variano solamente gli equilibri. In Guatemala ho trovato tensioni tali da rimanerne esterrefatto. Paesaggi incredibili, laghi lambiti da vulcani, foreste pluviali, pianure riarse e altopiani perennemente coperti da nubi, tutto in uno stato minuscolo. La lotta che avviene tra i paesaggi funziona bene come metafora di questo posto. Una situazione politica e una storia di guerriglia che paiono la summa di tutte le disgrazie e le ingiustizie dell’America Latina. Una popolazione nettamente divisa in due, Ladinos e Maya, con religione, abitudini e tratti somatici diversi; uniti solamente, pare, dalla gran povertà. Una cultura, quella Maya, viva, che si basa su un’antichissima storia fatta di saperi avanzati legati alla natura, una gran dignità e un’enorme fede negli dei. Un’altra cultura religiosa, quella cattolica, che è arrivata con gli spagnoli e ha cercato di spazzare via tutto.

Che è successo invece qui? I Maya l’hanno accolta, dove fosse possibile un dialogo, e hanno affiancato ai propri dei i nostri santi. La Ceiba, la pianta sacra che sta agli angoli del mondo, ricorda la croce. Ma non è solo una banale questione di somiglianze. La religione Maya, per noi complicata e oscura, ha nel suo intimo essere quest’apertura all’altro, al di là del discorso puramente antropologico/culturale d’integrazione. E, ovviamente, questa tendenza è radicata in ogni uomo Maya. Fatto assolutamente strano per noi, soprattutto in un periodo nel quale pare che stiano per riaccendersi le guerre sante (ma questo è un discorso che riguarda il monoteismo, la tecnica, ecc.)

Di fronte a tutto ciò, i miei scompigliati pensieri ed io ci trovammo esattamente nella posizione che ho accennato all’inizio: volontà di rappresentare e totale perdita in una realtà tanto ricca quanto diversa dal nostro “canone”. Così cominciai a filmare. Grazie alla preziosa presenza di Claudia e Ruggero di AINS (Associazione Italiana Nursing Sociale)., splendidi compagni di viaggio, potevo avvicinarmi a persone che mi hanno illustrato, è il termine più appropriato, quello che fanno e che subiscono da sempre. Per il resto mi hanno lasciato fare, fiduciose della mia sincerità, non so come percepita.

Avevo una scaletta, una sorta di canovaccio, che mi dava alcune coordinate per non andare alla deriva nel “mondo nuovo”, ma la maggior parte delle riprese ha avuto luogo senza grosse costruzioni a priori. Il materiale che andava accumulandosi era il più disparato: interviste ad ex guerriglieri, paesi e scuole spersi nella nebbia, bimbi scalzi, un’intervista ad una perpetua, un matrimonio, riti Maya, chiese cattoliche, chiese cattoliche con annessi tumuli Maya, ecc.

Ero sicuro di quell’eterogeneità filmica. Mi sembrava che avesse un senso. Mi perdevo fiducioso tra i racconti e le sconnessioni di quella terra. Riuscivo, lo posso dire solo ora, ad ascoltare un poco e a digerire il fatto che, credere di poter conoscere totalmente un cosmo così diverso e complesso, è impossibile. Stavo raccogliendo frammenti da proporre all’altro mondo, il nostro, come testimonianza di qualcosa di vivo e incredibile che si muove contemporaneamente a noi.

Tornato a casa tutto è stato più difficile L’organizzazione del girato mi sembrava difficilissima. Lontano da quei luoghi dovevo in qualche modo cedere il passo alla fruibilità del film, alla logica narrativa, piuttosto che alla sensazione grandiosa, personale, aleatoria, forse solo mia, dell’indicibile. Dovevo cedere, per dirla in modo colto, al logos, forma comunicativa privilegiata del nostro mondo, e oggi più che mai unico canale conoscitivo. E’ stato un parto lungo e faticoso, nulla mi sembrava soddisfacente.

Poi ricordai una cosa. Avevo stralci di lettere, mai spedite, che scrissi a mia moglie durante tutto il viaggio. Cominciai a sistemare le lettere per renderle fruibili dal punto di vista audiovisivo e, su queste, iniziai a montare il film. Oltre ad essere un sincero omaggio alla mia amata moglie, l’epistola mi permetteva l’unico modo di portare sullo schermo in maniera comprensibile qualcosa che avrebbe sofferto di qualunque razionalizzazione sommaria: la prima persona singolare, l’io, ovvero le mie sensazioni, i miei nessi logici, i miei dubbi sui suddetti nessi. Una visione parziale, dunque, ma anche una garanzia d’autenticità, poiché chi ha fatto il film si mette in gioco totalmente.

Ciò che si ascolta non è generico, è suo, si può accettare oppure no. Il film, credo, è lo scontro tra una persona, sicura del logos che permea il suo mondo, e una cultura che trova nel mythos la principale via di relazione. Provo così a raccontare quest’esperienza, che ha creato in me è l’unica cosa possibile, ossia la sospensione del giudizio, per quanto possibile, e un’apertura, forse piccola, verso l’altro così distante e così vicino, parte dell’umano. Abbandonando per qualche istante la ragione. Così ho terminato il film. Non posso dire come sia il risultato finale. Posso solo sperare che passi qualcosa di quello che ho provato, che sia come una camminata in un paesaggio impervio. The longer I walk, the farther I’m from everything, dice il poeta Mark Strand. Spero che sia così un po’ per tutti.”

 

 
 

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